lunedì 21 marzo 2016

MOVIDA SI MOVIDA NO, OPPURE….GENTRIFICATION - INTERVISTA A CHIARA FOGLIETTA (PD)

Secondo una versione caricaturale dei quartieri del divertimento notturno fornita da alcuni comitati di residenti, le nostre strade si sono trasformate in uno spazio libero di alcool, schiamazzi e piscio fino all’ alba. Quanto è vicino alla realtà questa immagine? E come si può contrastare? 
Vedere le strade di un quartiere come “spazio libero di alcool, schiamazzi e piscio fino all' alba” è la semplificazione estrema di uno spaccato di vita notturna.
Nei quartieri molto vivaci bisogna trovare una quadratura tra varie necessità. Perché da un lato abbiamo chi il quartiere lo “abita ma non lo frequenta”, chi “lo abita e lo vive”, facendolo suo, e chi “lo vive e basta”, magari di notte. Il problema non è della movida, semmai: stiamo parlando di attività economiche e culturali che muovono la città e la animano laddove una volta c’era ben poco. Penso a San Salvario, ad esempio, o anche al Quadrilatero Romano, dove un tempo “i gentiluomini non potevano andare”.

Insomma, è uno stereotipo che fa comodo perché la situazione è esasperata. E non è facile quando di fronte hai il problema principale, che è la mancanza di rispetto. Pubblicizzare le molte attività diurne in tutto il quartiere e incentivare di più chi il quartiere “lo abita” e basta, anche a “viverlo” potrebbe essere un primo passo all'abbattimento di questa versione stereotipata e caricaturale del quartiere stesso. Sono convinta che parlare di movida sia molto facile dal punto di vista elettorale, ma i problemi non si risolvono con gli slogan. È un lavoro complesso, lungo e difficile.

La legge 248 del 2006 ha liberalizzato le licenze inerenti le attività economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la somministrazione di cibi e bevande. Vanchiglia e San Salvario inondate di locali ne sono la manifestazione lampante: cosa può fare l’ Amministrazione pubblica per arginare e gestire tale fenomeno? Quali sono le vostre proposte in merito?
Incentivare apertura di centri culturali, lasciare spazi ai giovani dove possano creare iniziative pubbliche e private come concerti, dibattiti, fiere per le strade del quartiere (penso all’esperienza Emporium a San Salvario: grande volano per l’artigianato).
L’amministrazione deve creare le condizioni per facilitare una vita notturna viva e culturalmente significativa uscendo dallo stereotipo «giovani = uso di alcool, schiamazzi, irresponsabilità». A Torino abbiamo tantissimi ragazzi che suonano, scrivono, recitano ma hanno pochi spazi per “creare situazioni” e spesso non li facilitiamo se non in cornici istituzionali e burocratiche. Dovremmo fare in modo che la vita notturna sia anche la vita della cultura. Questo è un ragionamento politico perché dice che tipo di città vogliamo essere in futuro.

La parola chiave delle serate torinesi è, manco a dirlo, “cultura”: si può ancora parlare di ricca e florida produzione culturale in città o è solo una comoda etichetta? E soprattutto: esiste il Sistema Torino nel mondo culturale sabaudo?
Prima di tutto dobbiamo chiarire di che cosa parliamo quando parliamo di cultura. Parliamo di intrattenimento (per cui “fare cultura” è andare al cinema o a teatro) o di sistema legato alla creazione di un qualcosa, alla condivisione di idee per la società?
Ognuno ha la sua idea, ma per me cultura è anche responsabilità civica.
Dal consumo consapevole di alcool a una vita notturna che rispetta la volontà di chi di notte vuole dormire passando per una rinnovata sensibilità e consapevolezza del torinese. Io più che sull’esistenza di un “Sistema Torino” mi chiederei se esiste una “voce” di Torino. Abbiamo una voce culturale? Qual è la nostra caratteristica? Perché se no stiamo parlando di cultura come di un passe-par-tout, un termine vuoto. Io voglio riempirla, questa parola. Rinnovarne il significato.

L'“economia simbolica” dei colorati quartieri ricchi di artisti e poliedrici startupper può essere una delle vie di sviluppo della Torino del futuro?
Mettiamo questi artisti, questi “startupper”, questi makers nelle condizioni di fare di Torino la loro base. Il tanto abusato concetto di gentrification avviene anche quando l’amministrazione non impone uno stile di vita, ma crea le condizioni per cui sia il quartiere stesso a decidere il suo stile.
A San Salvario e Vanchiglia, ad esempio, ci sono tantissimi studi creativi che non connotano fino in fondo l’identità del quartiere. Dovrebbe essere così, invece. Una Torino città laboratorio delle idee, con i quartieri fucina di creatività giovanile potrebbe attirare una movida diurna che coinvolga esperti del mondo della tecnologia, del digitale, della sharing economy, dei diritti. Io vorrei che i quartieri di Torino fossero il teatro delle possibilità per chi ha delle idee.

Qualcuno definì il patrimonio storico-artistico il “petrolio d’Italia”. Si può secondo te parafrasare questa definizione dicendo che la cultura e la produzione di eventi possono diventare l “oro nero di Torino”?
Fuori dalla retorica e dallo slogan, sì. A patto, però, che gli eventi non siano fini a loro stessi. Ogni mattone deve essere generatore di idee. Se gli eventi restano cattedrali nel deserto, purtroppo, potremmo non farcene nulla. Dobbiamo fare in modo che il tanto abusato concetto di cultura diffusa sia un ritornello recitato da tutti i torinesi, in tutti i quartieri. Il problema non è la vita notturna di San Salvario e Vanchiglia, ma la vita notturna solo a San Salvario e Vanchiglia. A Torino ci sono otto circoscrizioni. La città ha urgenze, stili, necessità diverse. E questo oro nero si muove come un fiume sotterraneo in tutta la città. Non possiamo pensare che bastino due concerti in piazza San Carlo o una fila al Museo Egizio il 26 dicembre per “fare cultura”.

Il processo di gentrification ha plasmato i quartieri di San Salvario prima, e di Vanchiglia poi: come valuti tale trasformazione? Quale ritieni essere il ruolo dell’ attore pubblico, e quindi della tua futura Amministrazione, di fronte a questo fenomeno urbano?
I processi di gentrificationhanno sempre un rovescio della medaglia, ma non puoi governarla totalmente dall’inizio alla fine. L’amministrazione deve creare delle condizioni di convivenza tra i tre attori principali di cui parlavo prima (chi “abita ma non lo frequenta”, chi “lo abita e lo vive”, chi “lo vive e basta”) e essere equidistante. Bisogna continuare, ad esempio, il lavoro di confronto tra i gestori dei locali e le associazioni del quartiere, ma senza prendere parti: cercando una sintesi e offrire una visione. Prima di tutto favorendo lo sviluppo diurno, per una città viva 24 ore su 24. Poi cercando di spingere verso una “situazione costruttiva” per cui nei locali non si beve e basta, ma si fa qualcosa. Non voglio un’amministrazione che torni indietro: ne voglio una che guardi avanti e si confronti con le città che, in Europa, hanno affrontato ben altri problemi in termini di numeri di attori coinvolti come Londra e Berlino. La vita notturna, mi piacerebbe dirlo alle associazioni contro la movida, non esiste solo a Torino.

Gentrification fa rima, secondo molti suoi teorici, con speculazione edilizia: è possibile a tal proposito affermare esplicitamente l’esistenza di un “piano di rendita immobiliare” in questi ed altri quartieri di Torino?
Prima parlavo di rovesci della medaglia. Eccoli. La rivalorizzazione degli immobili dovuta alla trasformazione urbana coinvolge non solo le abitazioni, ma anche gli spazi commerciali. Un sensibile aumento dei prezzi nella “vita pratica” potrebbe essere fisiologico (una volta un mio amico mi disse: «Se non vai contro alla città, la città viene contro di te»): quello che possiamo evitare sono i fenomeni di speculazione edilizia, di affitti selvaggi e situazioni in cui qualcuno con la mano sinistra urla contro la movida e con quella destra alza i costi per guadagnarci. Un’amministrazione consapevole è un’amministrazione che tiene sotto controllo questi fenomeni, soprattutto se vuole connotarsi come città universitaria. Io ci credo, alla Torino universitaria. La nostra è ancora una città “a prezzo di persona” e dobbiamo continuare su questa china puntando su sviluppo sostenibile e creazione di nuovi spazi, sì, ma il più possibile creativi e condivisi.

Infine, un tema di attualità: come valuti la decisione dell’artista BLU di coprire le sue opere a Bologna dopo aver appreso che sarebbero state “sfruttate” a fini commerciali? Quale è secondo te il rapporto corretto che dovrebbe istituirsi tra forme d’arte pensate per essere “pubbliche” ed eventi “privati”?
Le opere di BLU sono nate per la collettività, in uno spazio collettivo. Privatizzare il collettivo è sempre un tema spinoso, soprattutto nell’arte. Tendenzialmente sono d’accordo con BLU perché sono poco chiari gli esiti di questo sfruttamento: gli utili sarebbero stati reinvestiti per quella stessa collettività privata dalle opere o no? Bisognerebbe rispettare il reciproco “non sconfinamento”. La street-art nasce in un contesto, per un contesto e con un senso politico ben preciso.

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