lunedì 21 marzo 2016

MOVIDA SI MOVIDA NO, OPPURE….GENTRIFICATION: INTERVISTA A MASSIMO LAPOLLA (TORINO IN COMUNE)

Secondo una versione caricaturale dei quartieri del divertimento notturno fornita da alcuni comitati di residenti, le nostre strade si sono trasformate in uno spazio libero di alcool, schiamazzi e piscio fino all’ alba. Quanto è vicino alla realtà questa immagine? E come si può contrastare?
I reazionari e i conservatori la pensano così. Io reputo che i luoghi dove si vive meglio siano quelli in cui esiste promiscuità. Immaginiamo il contrario: è un caso che quelli che chiamiamo ghetti siano bui, silenziosi e insicuri? E’ quel mix di studenti, lavoratori e anziani, etnie, religioni, cibi e professioni diverse che rendono la nostra città più vicina a una capitale europea. Tornare indietro sarebbe un grosso errore. E’ vero, Torino è diventata più spagnola e mediterranea nel suo modo di intendere lo spazio pubblico. Ci sono persone, che studiano e lavorano, che la "usano e vivono" anche negli orari crepuscolari.

Per questo servono servizi anche quando la vita amministrativa va a dormire: rafforzare i mezzi notturni, avere la metro a disposizione oltre le 23 ed evitare schiamazzi e urla alle 2 di notte; bagni chimici e idro-pulitrici per tenere puliti i quartieri limitrofi alla vita notturna; zone a traffico limitato notturno. Infine, ci sono alcuni angoli della città in cui bisogna trovare delle mediazioni: Largo Saluzzo o Piazza Santa Giulia oggi, come ieri Via Matteo Pescatore sono casi isolati che possono essere risolti con cura, mediazione e pazienza. La Notte è di tutti e - lo ricordo sempre - le violazioni del codice penale, così come i reati amministrativi sono individuali, e solo una piccola minoranza li compie.

La legge 248 del 2006 ha liberalizzato le licenze inerenti le attività economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la somministrazione di cibi e bevande. Vanchiglia e San Salvario inondate di locali ne sono la manifestazione lampante: cosa può fare l’ Amministrazione pubblica per arginare e gestire tale fenomeno? Quali sono le vostre proposte in merito?
Di sicuro da una parte, le politiche liberiste imposte da alcune Direttive Europee hanno reso più difficile il ruolo del Comune di programmare le attività commerciali ed economiche sul territorio e, dall’altra, il blocco delle attività in Piazza Vittorio Veneto ha sensibilmente aumentato la proliferazione di nuove licenze in altri quartieri a partire da San Salvario. Nella mia esperienza di amministratore posso dire che abbiamo ottenuto alcuni risultati positivi in circoscrizione. Infatti, abbiamo provato, partendo dal quartiere Vanchiglia, a mettere un freno alle licenze di locali cosiddetti “frighi”, bloccando l’apertura di locali sotto i 50 mq e continuando a valorizzare il tessuto di quartiere, composto in particolar modo di piccole attività. LovVanchiglia è un’esperienza associativa vincente: se in tutti i quartieri i cittadini, i commercianti, gli studi di architettura e comunicazione, le librerie e i centri culturali, le realtà associative e i locali notturni sapessero far rete valorizzando la vita del proprio territorio in tutte le ore della giornata, le tensioni diminuirebbero. Inoltre sono convinto che, se i Murazzi riprendessero il loro ruolo notturno, contribuirebbero sensibilmente a decongestionare i quartieri. Infine penso vadano sostenuti gli imprenditori che hanno provato o proveranno a dare vita a realtà culturali e artistiche alternative.

La parola chiave delle serate torinesi è, manco a dirlo, “cultura”: si può ancora parlare di ricca e florida produzione culturale in città o è solo una comoda etichetta?
E soprattutto: esiste il Sistema Torino nel mondo culturale sabaudo?
C’è una città che produce cultura lavorando a casa, nei bar, nei circoli, nelle piccole associazioni in periferia, nei teatri, nelle Case del Quartiere, nelle strade o nei parchi. Chi produce cultura, non solo quella “indipendente”, ma anche chi rientra in percorsi istituzionali – e tra questi, le Case del Quartiere che sono un ottimo contenitore per tante piccole associazioni che altrimenti non avrebbero uno spazio in cui esprimersi e sviluppare progettualità – è fortemente voluto dal pubblico, ma poi è poco sostenuto. Questa situazione, ovviamente, si aggrava se non si fa parte di contenitori istituzionali, con il rischio di essere messo ai margini del sistema, pur contribuendo in modo molto significativo allo sviluppo culturale e del territorio. 
La vetrina di questa città è dedicata alle grandi mostre, ai grandi festival, al decennale olimpico; non c’è spazio per chi lavora e produce, per chi fatica a mettere insieme un programma di qualità senza un euro di contributo pubblico.
Altra considerazione: è normale che in una città che punta fortemente su cultura e turismo manchino luoghi, modelli e opportunità? Perché quelli che si occupano di cultura sono spesso volontari e non sono considerati veri e propri lavoratori? Perché nel mondo del lavoro culturale e creativo l ”Economia della Promessa” costringe tutti e tutte a pagare non solo per formarsi ma addirittura per lavorare? 
Esiste un tappo in questa città, non c’è dubbio. Le seconde e le terze file non accedono mai ai ruoli di direzione artistica e gestione delle grandi istituzioni culturali. Un dato di fatto che vogliamo cambiare.

L' “economia simbolica” dei colorati quartieri ricchi di artisti e poliedrici startupper può essere una delle vie di sviluppo della Torino del futuro?
In questi anni, abbiamo abusato del lessico anglofono dell’innovazione e spesso strumentalizzato alcune esperienze di successo come i FabLab e le realtà di coworking, presentandole come la soluzione innovativa a portata di tutti. Abbiamo anche abusato della retorica delle start up per celebrare il successo imprenditoriale dell’uomo solo al comando. Io penso che lo sviluppo di nuove attività e la creazione di posti di lavoro siano ovviamente necessari in questa città, ma il sostegno al settore dell’innovazione non deve sostituire un impegno per lo sviluppo del settore manifatturiero e per la difesa delle poche attività industriali che ancora in questa città resistono. Siamo in anni difficili, con la crisi che morde e fa male: sarebbe suicida decidere di investire su una sola attività, trascurando le altre. Lo sviluppo deve necessariamente puntare su un approccio integrato, che sappia offrire delle risposte a persone con competenze diverse. 

Qualcuno definì il patrimonio storico-artistico il “petrolio d’Italia”. Si può secondo te parafrasare questa definizione dicendo che la cultura e la produzione di eventi possono diventare l “oro nero di Torino”?
Quella del patrimonio storico-artistico come “petrolio d’Italia” è una definizione infelice, emersa negli anni ottanta, anni in cui la valorizzazione stava diventando sempre più un concetto prêt-à-porter, legato alla logica monetizzata dei Grandi Eventi. Il petrolio si sfrutta seguendo le logiche e le regole del consumo, si mantiene da solo e ha il solo scopo di produrre denaro. É un bene che si trova sotto i nostri piedi, pronto all’uso: penso invece che la cultura sia un bene in continua costruzione, sempre bisognoso di una nuova alimentazione. Le amministrazioni devono porre le condizioni per tutelare i beni storico-artistici, creando attività culturali slegate dal concetto di evento “usa e getta”. Non credo, insomma, che la cultura rappresenti il nostro “oro nero”, ma piuttosto che sia una delle risorse di punta di questa città, da gestire e supportare con intelligenza e lungimiranza. 

Il processo di gentrification ha plasmato i quartieri di San Salvario prima, e di Vanchiglia poi: come valuti tale trasformazione? Quale ritieni essere il ruolo dell’ attore pubblico, e quindi della tua futura Amministrazione, di fronte a questo fenomeno urbano?
Credo che le vicende di San Salvario e quelle di Vanchiglia non possano essere accostate in maniera così semplice, anche considerato che il secondo quartiere vive una trasformazione determinata, tra gli altri fattori, dalla presenza del Campus universitario. In ogni caso, è evidente abbiamo di fronte un conflitto di interessi, la cui risoluzione richiede di immergerci nelle contraddizioni di una situazione che soltanto una lettura ideologica può definire bianca o nera, senza sfumature. Il settore immobiliare va tenuto sotto controllo, per evitare le speculazioni selvagge: infatti, sebbene alcuni si ritrovino a vivere in un quartiere più vivace perché gentrificato, altri possono mal sopportare la trasformazioni e tra questi molti, di solito, appartengono alle fasce più deboli della popolazione locale e vengono spinte ai margini della città. La periferia geografica si fa periferia sociale. Anche qui, tuttavia, il problema è un altro: quanti sono gli abitanti che vivono in centro nelle grandi città? Che cosa è realmente una periferia? Non sarà forse più estesa del confine cittadino con cui tendiamo a identificarla? Ecco, la gentrification è un problema anche perché negli anni le amministrazioni non sono state capaci di creare una città policentrica, dotata di servizi diffusi sul territorio e di reti di inclusione sociale, che sono invece fondamentali per affrontare le trasformazioni urbane.
Il pubblico, e in particolare l'Amministrazione locale, nonostante i tagli delle risorse e le competenze ridotte in questa materia, potrebbe introdurre dei meccanismi di compensazione tramite un aumento dei servizi pubblici locali, per equilibrare la qualità della vita nei diversi quartieri della città.

Gentrification fa rima, secondo molti suoi teorici, con speculazione edilizia: è possibile a tal proposito affermare esplicitamente l’esistenza di un “piano di rendita immobiliare” in questi ed altri quartieri di Torino?
A me pare che qui sia il cuore del problema: questa domanda tocca un nervo scoperto e ci porta in uno di quei campi che la sinistra ha abbandonato in termini di elaborazione teorica. I processi di valorizzazione che alimentano la rendita immobiliare sono una creazione collettiva di tutti e non un profitto del singolo proprietario.
Disinnescare i meccanismi di accumulazione concentrata, a vantaggio di una distribuzione del surplus che la comunità crea, è la strategia politica da mettere in campo. Se ci fosse stata la progettazione di un'azione di questo tipo, sarebbe stato possibile disinnescare la redazione del piano di rendita, evitando che alcuni si arricchissero a discapito di altri. 
Pochi giorni fa, Il Fatto Quotidiano ha raccontato del meccanismo introdotto dalla città di Parigi per scoraggiare l'aumento ingiustificato dei canoni di locazione: la città è stata divisa in 14 settori ed è stato individuato un canone medio.I contratti di locazione non devono superare più del 30% questo livello. È stata creata una commissione ad hoc per monitorare queste situazioni e la sola approvazione della legge ha prodotto un cambiamento nel settore e una definizione più onesta dei canoni. 
Questo sistema di "gabbie" dei canoni di locazione può essere sviluppato anche nella nostra città non solo per controllare l'aumento dei prezzi delle case ma anche per contenere le oscillazioni del mercato immobiliare determinate dal trasferimento della vita notturna? Penso che sia un'ipotesi su cui ragionare e come “Torino in Comune” abbiamo intenzione di farlo. Del resto, amministrare vuol dire anche porsi la sfida dell’innovazione.

Infine, un tema di attualità: come valuti la decisione dell’artista BLU di coprire le sue opere a Bologna dopo aver appreso che sarebbero state “sfruttate” a fini commerciali? Quale è secondo te il rapporto corretto che dovrebbe istituirsi tra forme d’arte pensate per essere “pubbliche” ed eventi “privati” ?
Come è stato detto da molti, quello di Blu è un gesto politico, una sottrazione che ha però il senso di una rivendicazione e dell'offerta alla cittadinanza di un'occasione di dibattito pubblico. L'arte di strada nasce come gesto libero, spesso anonimo, certamente destinato a una fruizione comune, urbana e gratuita, un gesto anche aperto alla trasformazione, alla scomparsa o al deperimento di ciò che produce. Per questo un'amministrazione lungimirante dovrebbe lasciar vivere queste opere d'arte "regalate" alla città là dove esse sono state create e valutare, eventualmente anche promuoverle mettendo a disposizione a sua volta spazi e progetti. Un’amministrazione, invece, non dovrebbe agevolare e benedire forme di speculazione indebita e di privatizzazione di una forma d'arte che è di tutti e non può appartenere a nessuno (come nel caso della mostra bolognese che espone opere letteralmente staccate dai muri della città e trasformate in pezzi da museo).

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