martedì 20 gennaio 2015

La favola dei beni comuni: regole e principi per renderla reale.

Ci vorrebbe una riforma grammaticale, logica e lessicale prima che costituzionale, una poesia di Rodari o di uno dei suoi lettori. Una riforma del pensiero, del significato di 'possedere', di 'condividere' e di 'rappresentare' prima ancora dell'invenzione di una nuova categoria giuridica. Ci vorrebbero nuove pratiche di rispetto e responsabilità per ciò che è 'nostro' ma che non  può considerarsi né mio, né tuo, né di tutti né di nessuno. Alice in Wonderland risolverebbe il paradosso con una giravolta; a noi, invece, che con la realtà dobbiamo farci i conti, tocca essere ingegneri: inventare strumenti concreti e costruirli in modo giusto. 

Comuni sono quei beni riconosciti e rivendicati dalla collettività, beni partecipati, curati, tutelati. E ancora: beni né pubblici né privati, materiali e immateriali, funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali della persona, beni da difendere nell'interesse delle generazioni future. E, aggiungerei: beni che producono beneficio per le collettività presenti e future, beni verso cui, è evidente, non si può muovere alcun interesse privatistico ma solo un'interesse di tipo comune.
Per il nostro paese non esistono. La Costituzione italiana non riconosce beni che appartengano al 'terzo genere'. Parlare di gestione condivisa o di progettazione partecipata non può che sembrare favoloso nel nostro paese. Secondo l'art. 42 della costituzione: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”.  Eppure in più di 20 comuni italiani oggi si parla e si praticano forme di governo dei beni comuni. Sono comuni favolosi? Gli abitanti hanno virtù speciali? Queste città non hanno fatto una giravolta, né la rivoluzione, lì non si vive a testa in giù ma gli abitanti hanno i piedi piantati al suolo e tutte le braccia al loro posto.  Bologna, Chieri, Siena, Orvieto e Acireale, Messina e Napoli -solo a titolo esemplare- non sono Città Invisibili ma città esistenti, reali e vissute, le cui amministrazioni hanno scelto di dotarsi di strumenti amministrativi che riconoscano la categoria giuridica di bene comune. Le formule magiche capaci di restituire esistenza a tali beni sono contenute in regolamenti cittadini, delibere d'uso civico e protocolli d'intesa. Documenti che disciplinano le forme attraverso cui la comunità, i cittadini, ma anche soggetti giuridici o collettivi come assemblee pubbliche, comitati di scopo, associazioni temporanee o permanenti, possono partecipare alla cura, rigenerazione e gestione dei beni che vengono riconosciuti comuni. 

Nella favola dei beni comuni il territorio, il patrimonio artistico, i saperi, la cultura e i suoi luoghi, le risorse naturali e gli spazi sociali sono difesi dal Comune e dalle sue comunità. Qui, gruppi di cittadini possono esercitare la propria responsabilità verso i 'nostri' beni senza essere chiamati occupanti, visionari sì e anche imprudenti, ma non disobbedienti. Nelle città dei beni comuni le responsabilità sono condivise, la progettazione partecipata e la gestione è comune.

Quello dei beni comuni è lo spazio delle relazioni interpersonali, luogo in cui la dicotomia pubblico/privato viene meno, in cui le forze oscure del profitto perdono potere. In questa favola, l'intera comunità ha accesso ai benefici. In questi luoghi, il bene comune non è il risultato di una sommatoria dei benefici individuali ma è uguale al loro prodotto. Una distribuzione iniqua, dunque, annulla il risultato totale, accentrando il potere e gli interessi in poche, piccole mani, inadatte a contenere e conservare ciò che è comune e che automaticamente diverrebbe privato. 

Ci vorrebbe una riforma grammaticale, logica e lessicale; una riforma del pensiero, del significato di 'possedere', di 'condividere', di 'rappresentare'. Occorre ripensare la prima persona plurale, ripensare la parola 'responsabilità' e la parola 'partecipazione'. Ci vorrebbe la capacità di riconoscere il fallimento della relazione pubblico/privato e la volontà di rimediare restituendo diritti alle comunità, esperte dei propri bisogni e delle proprie volontà. 
Il riconoscimento giuridico della categoria dei beni comuni attraverso un regolamento, o altri strumenti amministrativi può aiutare: indirizza il governo dei commons sottraendoli agli umori politici e legittima le forme di partecipazione della comunità. Adottare uno strumento amministrativo che disciplina le forme di collaborazione tra cittadini e Comune significa dichiarare possibile la favola e renderla reale, ma è importante ricordare che in questa favola il profitto non può esistere, che chiunque scelga d'interpretarla dovrà stare alle regole della fantasia altrimenti l'uso esclusivo e rivale trasformerà la favola in tragedia: i giardini resteranno chiusi o verranno trasformati in parcheggi, i palazzi reali si logoreranno o peggio verranno ceduti per pochi spicci, i terreni verranno traforati, le risorse monopolizzate e saranno pochi, pochissimi quelli felici e contenti e lo saranno per poco, solo finché la mucca avrà abbastanza latte da poter succhiare. 

Le favole rendono possibile l'inesistente, danno dignità di vita all'impensabile. I contenuti, nelle favole contano, e come, ma più di tutto contano le modalità e i processi. Tutti hanno diritto a stare al gioco della fantasia ma sono le regole a definire il gioco. I beni comuni hanno le proprie oppure, va detto, il gioco è un altro: è il gioco del profitto, il gioco delle privatizzazioni, il gioco del debito in cui, si sa, vincono sempre i soliti e a perderci, invece, sono le comunità.
Chiara Vesce


Chiara Vesce è laureata in filosofia e ha inoltre portato a termine un master in Management delle imprese Sociali, Non Profit e Cooperative. Da pochi mesi vive a Torino. E' una fantasiologa integralista, crede nelle favole e prova a renderle reali. 

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