giovedì 29 gennaio 2015

No Tav: abbandonare il campo, vincere la battaglia e perdere la guerra. Il paradosso della partecipazione in Val Susa.

L'estetica delle assemblee popolari di Bussoleno lascia sempre senza parole.
Centinaia di corpi che si stringono, capelli bianchi e bastoni, creste e giacche a vento nere, sciarpe di ogni colore, giovani e vecchi, il benzinaio e il contadino, lo squatter e l'imprenditore.
La dimostrazione plastica di un popolo che non arretra, tignoso, apparentemente indomabile.
Un'immagine retorica, anzi, pletorica, si dirà.
Eppure è così, da anni, da molti anni.
Peccato che i giudici non abbiano tenuto conto di questo processo democratico, con tutti i suoi limiti, e si siano rinchiusi nel recinto ristretto del Codice Penale per giudicare il lancio di un sasso, un insulto, una rete strappata.
Gesti intrinseci ad un sentimento popolare che non capiscono e non conoscono.
D'altronde la val susa raccontata dai media è il luogo più lontano dell'universo dalla realtà, come potrebbe essere diverso?
Come ben detto da una sopraffina mente del giornalismo terracqueo, tal Paolo Severgnini, il Tav prosegue la sua corsa per il semplice fatto che lo Stato non si può arrendere di fronte ai No Tav, anche se il progetto è ormai definitivamente considerato inutile dai più.
Da piccolo segreto sussurrato negli incontri informali a verità generalista da canale nazional popolare, il passo è stato breve.
Da strategico per le sorti dell'intero Paese a "i No Tav non possono essere un esempio".
Lo Stato quindi, attraverso sentenze dure, repressione e controllo del territorio, si sta difendendo da una minoranza che ha ragione.
Antico problema della democrazia, questo.
Così lo Stato affonda se stesso in un gorgo narcisistico: da un punto di vista economico ed etico.
Rendendosi purtroppo ridicolo e folle come un personaggio di Dostoevskji.
Il che significa, proseguendo nel solco della ridicola follia, che se il Movimento domani mattina decidesse di sciogliersi, ritirarsi e scomparire probabilmente il Tav verrebbe cassato per sempre.
Con una scusa, un cavillo atto a salvare la faccia ai vari volti che in questi anni hanno lavorato per la realizzazione di un tunnel tanto assurdo quanto generatore di partecipazione popolare.
Quindi se un'esperienza di partecipazione popolare decidesse di arrendersi e buttasse via venticinque anni di processi democratici veri, vincerebbe la sua battaglia.
Questo è il contesto, ormai lampante.
E' una situazione grottesca e paradossale in cui la ragione e il raziocinio non hanno più spazio e ci si muove in un campo illogico, irrazionale. Una situazione da cui, in filigrana, si vede la vera portata della lotta in corso, che va ben al di là del Tav, del buco nella montagna, dei soldi e degli intrallazzi: la volontà  di uno Stato ormai deforme di interrompere con ogni mezzo i processi partecipati che ingenerano coscienza di sé e per sé.


"Grandi moltitudini passavano davanti a lei, sollevando la faccia per implorarla. Nella mano sinistra teneva una spada. Brandiva quella spada colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio, ora una donna che tentava di sottrarsi, ora un folle. Nella destra teneva una bilancia; nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro da quelli che schivavano i colpi della spada. Un uomo con la toga nera lesse da un manoscritto: “Ella non rispetta gli uomini”. Poi un giovanotto col berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia erano corrose dalle palpebre imputridite; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un’anima morente le era scritta sul volto – ma la moltitudine vide perché portava la benda." (da "Antologia di Spoon River", di Edgar Lee Master)

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